03 settembre 2019

#4 OCULISTI CHE MISSIONE - Dr MARTELLI

Il Dr. Martelli, lavora a Bologna come libero professionista chirurgo oculista e ci racconta le sue esperienze in Africa per la nostra rubrica Oculisti che Missione!

Come ha iniziato la sua esperienza in missione?

Ho iniziato circa 10 anni fa, ispirato dal collega di specialità e amico del dott. Gianluca Laffi che è stato il fondatore di AMOA “Associazione Medici Oculisti per l’Africa”. Quando i miei figli sono diventati abbastanza grandi, ho cominciato ad andare una volta all'anno in missione e adesso è diventata una attività più frequente, ci vado almeno due o tre volte in un anno.

Quanti oculisti ci sono all'interno di AMOA e in quali paesi opera AMOA?

In AMOA siamo una trentina di oculisti di cui una quindicina costantemente attivi oltre a numerosi infermieri, ortottisti ed ottici, ma in realtà anche altri oculisti partecipano a missioni con AMOA sfruttando il nostro elemento organizzativo.

Siamo presenti sia in Italia, dove partecipiamo a progetti di screening gratuiti e di visite a gruppi di persone disagiate come i senzatetto, che in Africa, dove abbiamo una serie di progetti: 2 in Madagascar, 2 in Etiopia, una in Togo, Camerun, Senegal e Zimbawe, Ghana, Tanzania e Rwanda.

Noi di AMOA, oltre ad intervenire principalmente su pazienti affetti da cataratta, che è la più grande causa di cecità risolvibile nel mondo, facciamo anche formazione del personale locale. Cerchiamo, prima allestendo le strutture da un punto di vista delle apparecchiature necessarie, poi, in un secondo momento, formando il personale locale medico e paramedico in modo da cercare, nel tempo, renderli autonomi sia per la parte medica che chirurgica.

Quanto rimane in missione?

Di solito faccio missioni brevi, fino ad oggi ne ho fatte 15, della durata di due settimane circa, perché la chirurgia richiede molta concentrazione. Secondo me, è consigliabile andare in missione un numero maggiore di volte, ma per un periodo limitato. È più efficace.

Ci sono gli oculisti?

Gli oculisti in Africa sono pochissimi. Ad esempio in Camerun ci sono solo 26 operatori della cataratta certificati, tra oculisti e infermieri operatori, su una popolazione che è circa la metà di quella italiana. In Camerun, abbiamo ottenuto un risultato che definirei eccezionale: ci sono 3 TSO, che sono paramedici infermieri specializzati: uno svolge l’attività di infermiere, il secondo è stato formato come ottico ed il terzo è in grado fare le visite oculistiche e, dopo molti anni di formazione, è capace di operare la cataratta autonomamente. Ad oggi esegue 3/4 cataratte alla settimana da solo, senza il nostro aiuto. Oggi è uno di quei 26 chirurghi della cataratta certificati. AMOA ha fornito il supporto didattico ed economico per gli studi e adesso in Camerun abbiamo un ospedale che è completamente autosufficiente per l’oculistica. Attualmente il nostro supporto all’ospedale di Dchang in Cameroun è quasi solo economico e formativo.

Qual è la maggiore difficoltà che ha riscontrato?

Non direi la strumentazione o l’allestimento in quanto sono una difficoltà relative perché di solito andiamo in posti dove non c’è niente e tutti gli apparecchi vengono forniti da noi. La vera difficoltà è trovare il personale che abbia una scolarizzazione sufficiente per poter essere addestrato da noi a diventare autonomo nel suo lavoro. Per questo abbiamo in progetto di fare un centro di formazione, in Rwanda, per medici e paramedici locali per dare un centro di formazione permanente e gratuito a chi ha bisogno di incrementare le sue capacità.

È difficile il rapporto con le persone che formate?

Chi inizia a collaborare con noi quasi sempre è entusiasta. Cerchiamo sempre di selezionare con grande attenzione i nostri interventi proprio per non sostituirci o affiancarci a personale che già funziona, che già lavora autonomamente. CL’intento è di intervenire dove non c’è nessun’altra figura professionale. In alcuni casi invece, come in Zimbawe, collaboriamo sovvenzionando la chirurgia tramite due oculisti locali che noi remuneriamo per andare due volte al mese ad operare nell'ospedale da noi assistito. Abbiamo fatto questa scelta, pur di dare continuità all'assistenza.

Quando troviamo figure professionali stabili con buona scolarizzazione, ci impegniamo di impostare un percorso anche formativo per cercare di mantenere una continuità nell'assistenza.

Ha qualche aneddoto che vuole raccontarci?

Durante una missione in Camerun ho conosciuto una bimba di 8 anni, Cecile, sempre seduta vicino alla porta dell’ospedale, aveva vistose fasciature alle gambe. Non parlava, era timidissima, guardava in basso, poi pian pianino ha iniziato a salutarmi, ha preso un po' di confidenza.  Dopo qualche giorno è venuta a farsi visitare, aveva una cataratta totale post traumatica. Dovevamo operarla. Prima dell’intervento lei era terrorizzata dalla sala operatoria, tremava, le ho tenuto la mano. Insieme ad Antoine, infermiere anestesista locale, l’abbiamo addormentata e poi operata: siamo riusciti a farle recuperare completamente la vista. Il pomeriggio sono andato a trovarla e dormiva ancora, poiché le anestesie che si praticano in Africa sono molto pesanti. Dopo qualche giorno comunque Cecile ha ricominciato a sorridere, a parlare e a correre.

Bisogna considerare che la medicina come la intendiamo noi in Africa è poco presente e le popolazioni tribali non hanno idea di ciò che viene praticato, in sostanza: di cosa la medicina basata sull'evidenza scientifica. Non hanno idea di come funzioni, del rapporto causa/effetto. Spesso vedono questi “sciamani” bianchi con il camice e sono impauriti da quello che può succedere e da quello che bisogna fare. Non sanno neanche molte cose si possono risolvere. È impensabile, però vedi proprio un cambiamento della faccia e dell’approccio alla vita, come con Cecile.

In Madagascar invece, una volta io e un mio collega veniamo chiamati per un’urgenza verso le 8 di sera. L’urgenza era un detenuto cieco portato da un militare che aveva fatto tre giorni e tre notti di viaggio a piedi per farsi visitare. Aveva perso la vista completamente anni prima e veniva condotto dal militare con una canna. Quest’uomo, che aveva circa 35/38 anni, non parlava, aveva lo sguardo fisso, quasi assente. Il giorno dopo lo abbiamo operato al primo occhio ed ha ricominciato a vedere e dopo qualche giorno ha anche ricominciato a parlare …. Il fatto di non parlare, era dovuto al trauma di essere in galera, non si sa da quanto tempo, e di essere cieco da anni.

Com'è il rapporto con i pazienti?

Le popolazioni africane sono estremamente diverse tra loro, ad esempio i Malgashi sono amichevoli ma molto timidi. Per loro è impensabile guardarti negli occhi, chiederti delle cose o portarti dei regali, non solo perché sono poveri ma perché la tribù e la famiglia sono tutto. Tu sei il bianco che è lì, non si sa come, per dare una mano ma, alla fine, il ringraziamento è che lui dopo riesca a cavarsela da solo e vivere una vita normale.

Poi ci sono altre situazioni, come in Ruanda o in Camerun, dove le persone si mettono a piangere o ringraziano perché ad esempio non avevano più potuto vedere la figlia negli ultimi 20 anni e adesso possono farlo. Popoli quindi più simili a noi dal punto di vista culturale che riescono ad esprimersi come noi.

In generale noi operiamo in zone remote però dove c’è un ospedale strutturato e quindi abbiamo o dei mediatori culturali o dei traduttori che ci supportano.

Dove sarà la sua prossima missione?

Le prossime missioni saranno missioni esplorative e organizzative in Ghana ed in Etiopia ad Adwa.

E’ un’esperienza difficile a livello personale?

L’esperienza di volontariato una volta nella vita va fatta, poi magari diventa una passione come nel mio caso. Non bisogna vivere la vita passivamente. È un’esperienza talmente entusiasmante dal punto di vista emotivo che di solito si supera qualsiasi altra difficoltà. In realtà, sicuramente senza i lussi e i confort occidentali, noi andiamo in ospedali o in health-center che sono strutturati, spesso hanno una casa e dei volontari, non si sta male e l’estate scorsa dalle suore, in Camerun, abbiamo mangiato benissimo!! Un altro bellissimo aspetto è anche quello della condivisione delle esperienze e dei valori con gli operatori locali, che ti rimangono dentro.

Com'è cambiato il suo percepito dopo un’esperienza così forte?

Per prima cosa dobbiamo ricordarci che si vive una volta sola e che bisogna prendere bene le cose. Per seconda che facciamo un lavoro importante e che spesso lo dimentichiamo presi dalla nostra routine quotidiana. Abbiamo la percezione di essere solo parte di una catena di montaggio ma in realtà facciamo un lavoro che salva la vista alle persone (per molti medici la vita) ed un bagno di umiltà e vitalità ci consente di riavvicinarci al vero valore della nostra nobile professione. Al ritorno, per qualche tempo vedi tutto con una prospettiva più positiva. L’esperienza del volontario ti apre gli occhi e va fatta!