Il Dr. Gianluca Martone, specialista in oftalmologia, dirigente medico dell’ospedale Misericordia di Grosseto ci racconta la sua esperienza in missione per la nostra rubrica Oculisti che Missione!
Come è nata la sua esperienza in Africa?
In realtà “la mia esperienza” è nata casualmente durante un intervento chirurgico che stavo effettuando in anestesia locale a un sacerdote, Don Sergio, con il quale ho un rapporto carissimo e che mi ha visto crescere sin da piccolo. Proprio durante l’intervento condividevo le mie esperienze e missioni che avevo effettuato in Africa e raccontavo come queste fossero molto gratificanti e stimolanti sia dal punto di vista professionale che umano. Ma soprattutto mi e gli domandavo se queste “goccioline nell’oceano” fossero veramente utili considerando la durata limitata delle missioni. E soprattutto gli confidavo a malincuore come spesso l’arrivederci che diciamo sempre a fine missione sia in qualche modo una delusione e un fallimento della missione stessa, in quanto tutti consapevoli che fino alla successiva non ci sarà nessuno che si prenderà cura di loro. Ricordo allora che lo stesso Don Sergio, forse al controllo postoperatorio, mi disse di aver probabilmente trovato la possibilità di creare un progetto diverso e più duraturo, soprattutto con lo scopo di fare tutoraggio e formazione al personale locale. In poco tempo nasce una Onlus denominata “...a riveder le stelle – Onlus per l’Africa”, con il suo statuto e soprattutto con un gruppo di volontari che vorrei ringraziare per il supporto e l’aiuto che quotidianamente riescono a dare. Nel 2016, ci rechiamo un weekend a Bamako, un vero e proprio blitz, insieme al mio collaboratore ortottista Francesco Gronchi e Don Sergio stesso per verificare “la fattibilità” del progetto. È nato così il progetto Oculistico a Bamako.
Che cosa l’ha particolarmente colpita del paese?
In realtà i Paesi e soprattutto le capitali africane sono molto simili fra di loro. È abbastanza comune avvertire sempre un senso di confusione, povertà e arretratezza, soprattutto quando si passa dai quartieri più “ricchi” a quelli più poveri. Anche Bamako è caotica, invasa dai motorini e con le strade affollate di gente, piene di vita e colori. Quello che però mi ha colpito di Bamako sono indubbiamente due cose: il bellissimo panorama e colore del fiume Niger all’alba e la sensazione di un paese dove si respira una certa cultura e un’importante storia passata.
Come vivono gli abitanti?
Le persone hanno poco di che vestirsi e ognuno cerca di vendere i pochi prodotti della terra per procurarsi il cibo per la giornata. Ma soprattutto la problematica più grossa è quella dell’acqua. A tal proposito ricordo come una sera siamo andati in un villaggio poco distante da Bamako dove la Onlus ha donato un pozzo e tutti gli abitanti ci hanno accolto in modo commovente. Il capo villaggio ci ha spiegato come da quando sia arrivata l’acqua nel villaggio, la vita fosse completamente cambiata in meglio per tutti gli abitanti. Vederli gioire e ripeterci tante volte “Grazie” e la consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono per questa gente che ha così poco, è stato veramente emozionante. Comunque ciò che stupisce sempre è la dignità di queste persone ed i bambini che seppur nella loro povertà sono sempre pronti a regalarti un sorriso.
Quali sono le principali problematiche?
Per spiegare le problematiche e le situazioni che abbiamo di fronte quando andiamo in Africa non basta un trattato. Per introdurre quello che riguarda la mia attività lavorativa, è facilmente comprensibile come l’assistenza sanitaria in questi Paesi sia modestissima e per moltissime persone una pura utopia. A ciò si aggiungono mancanza di beni alimentari e possibilità di nutrizione.
E quindi in questi Paesi dove vivere in condizioni decorose è già complicato, farlo in condizioni di cecità diventa un dramma non solo per i diretti interessati, ma anche per le persone vicine determinando una serie di effetti a catena, come per esempio l’incapacità a sostenere la famiglia quando l’interessato è in età lavorativa o la necessità che i familiari si prendano cura della persona non più autonoma. La povertà, la mancanza di sanità pubblica e le distanze spesso proibitive fanno sì che il destino è quello di rimanere ciechi finché non giunge sul posto una qualche missione umanitaria.
Qual è stata la difficoltà maggiore durante la missione umanitaria?
Per quanto mi riguarda, una delle difficoltà maggiori è stata la lingua in quanto il Mali è francofono e io non parlo una parola di francese. Ma per fortuna con l’aiuto di una carissima amica che di professione fa la guida turistica a Siena e che è venuta con noi a Bamako, abbiamo superato queste difficoltà linguistiche. Anzi immaginatevi la scena quando nei primi interventi la mia amica, per la prima volta in sala operatoria, era costretta a una tripla traduzione bambarà-francese-italiano e viceversa di termini oculistici per lei sconosciuti.
Quali i maggiori problemi incontrati dal punto di vista tecnologico, operativo e ambientale?
La prima missione in Mali è stata particolarmente impegnativa in quanto aveva come obiettivo l’allestimento di un ambulatorio oculistico e di una sala operatoria da utilizzare per la chirurgia oculare presso l’Hopital de Gavardo di Bamako. I primi due giorni di lavoro a ritmi serrati sono stati dedicati a inventariare, sistemare, predisporre e organizzare tutti gli strumenti ed i materiali (alcuni già presenti in Mali in quanto spediti nelle settimane precedenti, altri trasportati direttamente da noi) con l’obiettivo di preparare gli ambienti per svolgere attività clinica e chirurgica. Dopo circa due giorni sono iniziate sia le visite, e non vi dico l’enorme affluenza dei pazienti, sia i primi interventi chirurgici.
Come tutte le missioni in Africa, all’inizio si fa fatica ad organizzare la risposta ad una tale mole di visite e lavorare in questi contesti obbliga ad una notevole duttilità ed elasticità. Non è facile passare dalle atmosfere dei nostri ambulatori italiani a questo mondo dove la percezione della malattia, della sofferenza e della povertà ti aggredisce e non ti dà tempo di pensare. Un aspetto sicuramente positivo è che le persone appaiono molto pazienti, aspettano anche un’intera giornata per essere visitate o operate e accettano le cattive notizie senza fare una piega. Comunque la prima operazione di cataratta a Bamako con facoemulsificatore è stata un’emozione, anche per me. Tutto funzionava… dopo due anni di preparazione. In tutta la missione poi sono state svolte numerosissime visite e interventi chirurgici della cataratta e delle palpebre.
Quali le cose sulle quali bisogna ancora, e con maggiore urgenza, intervenire?
Tante sono ancora le cose da fare, soprattutto per rendere il progetto duraturo e continuativo. E’ necessario garantire la fornitura continua di beni strumentali per consentire a personale specializzato di lavorare a buoni livelli, allestire altri ambulatori e sale operatorie oculistiche, anche in periferia a distanza dalla capitale Bamako. Inoltre è importantissimo coinvolgere ulteriore personale medico e sanitario sia per il reclutamento e selezione dei pazienti e dei casi clinici, chirurgici e non, più complicati da sottoporre poi alla valutazione dei volontari durante le prossime missioni, sia per una più corretta gestione postoperatoria dei pazienti che sono comunque stati sottoposti a una chirurgia “complicata”.
Quante missioni ha compiuto? C’erano altri colleghi con lei?
Ho partecipato ad una decina di missioni in Kenya, nella Repubblica Democratica del Congo e infine in Mali. In questi missioni ho avuto la fortuna di conoscere e lavorare con colleghi preparatissimi e personale sanitario molto motivato. Spesso sono andato con mia moglie, la Dott.ssa Patrizia Pichierri anche lei oculista, e con alcune ferriste “storiche” come Chimena e Mary che mi hanno visto “nascere e crescere” come chirurgo in Italia.
Cosa pensano di voi i medici locali? Ha trovato dei talenti?
In Mali le attività cliniche e di chirurgia si sono svolte sempre in affiancamento e collaborazione con il personale locale. Sono riuscito a fare tutoraggio chirurgico ad un collega oculista del Mali il quale si è dimostrato molto entusiasta, motivato e volenteroso di imparare la tecnica “moderna” mini-invasiva della chirurgia della cataratta ed è riuscito a portare a termine da solo diversi interventi di facoemulsificazione. Ricordo a proposito un episodio di un intervento che ha avuto una complicazione intraoperatoria (una fuga della rexi importante ed improvvisa) per la quale la facoemulsificazione è stata convertita in ECCE in modo perfetto e rapidissimo dal mio collega, molto più abituato di me ad eseguire questa tecnica. Questo episodio mi ha fatto capire, se ce ne fosse stato bisogno, che tutti noi abbiamo sempre da imparare dai nostri colleghi per crescere professionalmente.
Ha un aneddoto da raccontarmi che le è rimasto particolarmente impresso?
Di episodi da raccontare ce ne sono moltissimi. Rimango sempre colpito quando andiamo nei villaggi e veniamo accolti da centinaia di persone che arrivano anche da villaggi lontani. Inoltre mi stupisce come ancora nel 2020 i bambini che vedono per la prima volta l’uomo “bianco” siano all’inizio timorosi e diffidenti. Un episodio che vorrei raccontare, anche perché sia di insegnamento a noi ed a i nostri pazienti, è quando siamo andati un giorno al dispensario di un villaggio vicino a Bogouni, al confine con il Bourkina Faso, a circa 100 km da Bamako. Qui grazie all’aiuto dell’autorità locali insieme alla collaborazione di un medico oculista locale è stata organizzata una giornata di ambulatorio oculistico con i pochi mezzi a disposizione. In un giorno sono state effettuate più di 200 visite ma purtroppo non è stato possibile visitare molti altri pazienti in attesa. Pazienti che avevano percorso anche molti km a piedi semplicemente per essere visitati 5 minuti da noi. Quando è stato detto loro che non potevamo materialmente fare altre visite per mancanza di tempo, è stata impressionante la loro reazione fatta di straordinaria dignità, silenziosa compostezza e rispetto nei nostri confronti.
Come riesce a conciliare la professione, la vita privata e la sua attività di volontariato?
In realtà non è assolutamente facile perché ogni minuto dedicato alla missione, anche in Italia nel periodo della preparazione, è tempo che togli a te stesso, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Mi ritengo fortunato perché ho un primario che mi sostiene in questa mia attività e mi permette di riservarmi periodi di ferie dall’ospedale per andare in Africa. È chiaro che ogni missione determina uno svantaggio per la propria attività in Italia ma ormai anche i miei pazienti italiani sono abituati alle mie assenze temporanee. La difficoltà più grosse sono quelle familiari poiché spesso vado con mia moglie, anche lei oculista, per cui lasciamo soli i nostri figli. Sono comunque sicuro che quando saranno grandi capiranno le cause dei nostri viaggi e saranno orgogliosi dei loro genitori.
Oltre al valore umano, cosa le ha insegnato dal punto di vista medico?
Dal punto di vista professionale una missione in Africa è senza dubbio un’esperienza molto formativa. La nostra attività prevalente è chirurgica, facciamo soprattutto interventi di cataratta, che rappresenta in Africa una patologia oculare che dà spesso cecità. Molti casi operatori sono difficili. Si tratta spesso di cataratte con il grading più alto a cui devi far fronte con le tue conoscenze e capacità chirurgiche sapendo che puoi sfruttare solo i mezzi a disposizione. Ciascun caso chirurgico è spesso una sfida, direi anche molto stimolante. Inoltre impari a ragionare e lavorare in modo completamente diverso rispetto alla tua routine quotidiana quando, come chirurgo, sei abituato a una situazione di sala operatoria italiana dove la tecnologia impera, le apparecchiature diagnostiche e terapeutiche sono aggiornatissime, il materiale è sempre di più usa e getta, sempre nuovo, rigorosamente sterile e non riutilizzabile.
Se avesse la possibilità di esprimere un desiderio per poterli aiutare ancora di più, cosa chiederebbe?
Ci sarebbero tante cose da fare e migliorare. Le priorità sono sicuramente quelle di formare il personale sanitario locale mediante l’addestramento in loco promuovendo la sostenibilità e l’autogestione delle strutture realizzate e l’autonomia professionale. Inoltre mi piacerebbe organizzare nei dispensari, nelle scuole, nei villaggi periferici, progetti di screening dei deficit visivi soprattutto nei bambini in età pre- e scolare, utilizzando anche il personale scolastico locale ben addestrato.
Come è cambiata la sua visione dopo l’esperienza in missione?
È facile affermare che esperienze del genere ti cambiano dal punto di vista umano. Una delle cose che più mi ha colpito durante la prima missione in Kenia è che molti pazienti che si incontravano nei piccoli villaggi durante le visite ripetevano spesso due parole: HAKUNA MATATA. Hakuna matata è una locuzione swahili, di uso estremamente comune nelle regioni dell'Africa centro-orientale ed una possibile traduzione in lingua italiana è "non ci sono problemi" o "senza pensieri". La frase è stata resa celebre dal film ‘Il re leone’ dove in una celebre scena, viene insegnato a Simba la filosofia hakuna matata: dimenticare i problemi del passato concentrandosi con ottimismo sul presente. È una sorta di filosofia che sarebbe importante seguire anche in alcuni momenti della nostra quotidianità. Essere “senza pensieri” è molto difficile al giorno d’oggi: scuola, lavoro, famiglia, amici e chi più ne ha più ne metta. Ma si potrebbe vivere la vita con maggiore leggerezza, avere un po’ di autoironia e saper affrontare le sfide della vita con un sorriso e un po’ di ottimismo, saper convivere con sé stessi e con gli altri. Semplicemente saper riconoscere ciò che veramente conta nella vita, senza rimanere imbrigliati nei problemi che la quotidianità ci presenta, guardando con ottimismo al presente e ancor di più al futuro.
Quale, in conclusione, il bilancio di questa meritoria e, crediamo, gratificante esperienza?
Tutte le missioni si concludono con un abbraccio al personale locale e con un arrivederci presto. Pur sapendo di essere solo una goccia nel mare dell'Africa, la convinzione è che ogni missione trasmette sempre un personale arricchimento di qualcosa non quantificabile, sempre diverso ed acquisito in profondità, per cui vale sempre la pena ripartire.