10 luglio 2019

#3 OCULISTI CHE MISSIONE - Dr CAU

Il Dr. Cau, medico oculista chirurgo presso la clinica oculistica di Cagliari ci racconta la sua esperienza in Africa per la nostra rubrica Oculisti che Missione!

Com’è nata questa passione per le missioni?

È nata da una sorta di scommessa con altri medici specializzandi e altri colleghi. Ci eravamo riproposti di andare a fare un’esperienza in Africa e alla fine per una serie di problemi purtroppo siamo partiti per la Missione solo io e un medico specializzando. Siamo andati nel 2013 con una ONLUS, la Soleil d’Afrique, in BENIN dove siamo rimasti per 15 gg ad operare, riordinare l’ospedale da campo e a formare il personale in loco.

Ha fatto più missioni o solo questa? Purtroppo ho potuto fare solo questa perché dopo hanno preso il sopravvento una serie di problemi, anche tecnici e burocratici, in Italia che non mi hanno permesso di andare in missione. Per noi oculisti Italiani, l’unico modo di andare in missione è mettersi in aspettativa o in ferie ma per la burocrazia, se sei in ferie e sei un medico intramenista, le autorizzazioni che devi avere per poter svolgere il tuo lavoro a km di distanza sono tantissime e questo mi ha impedito di fare altre missioni. Infatti, fino al 2017, non solo ero direttore ma avevo anche per obbligo la funzione di intramenista e quindi non ho potuto più fare missioni. La burocrazia non mi ha agevolato. Dal 2017 però sono rientrato all’interno della clinica e quindi ho ripreso l’idea di poter riandare in Africa perché non solo adesso non ho più i problemi burocratici che avevo prima ma ho anche ripreso a fare il tutor quindi ho medici in formazione che vogliono fare questa esperienza. Quindi spero di poter partire per una nuova missione il più presto possibile.

In generale come è andata la missione? Molto bene, abbiamo sistemato moltissimi macchinari smontandoli e riparandoli con quello che avevamo così abbiamo potuto formare il personale locale. In mattinata e nel primissimo pomeriggio riuscivamo a fare anche 100/150 visite di screening e operare tra mattina e pomeriggio fino alle 8/ 9 di sera. Poi si ritornava al lavoro organizzativo perché in realtà di materiale ce n’è tanto però arriva alla rinfusa e in maniera disorganizzata e non viene utilizzato perché non ci sono chirurghi che possono usarlo. Eravamo in condizioni a dir poco precarie eppure riuscivamo ad operare con niente.

Quali problemi ha riscontrato in missione? I problemi sono enormi, una cataratta può portare a cecità perché non c’è nessuno che ti opera e anche un glaucoma molto semplice dove basterebbe una terapia anche minima con delle gocce porta a gravi problemi. Abbiamo trovato tantissimi ragazzi di 30 anni con glaucoma, per fare screening basterebbero semplici strumenti, facili da usare e con dei costi irrisori.

Quanti oculisti ci sono in Benin? Ci sono 6/8 oculisti di cui solo 4 facevano chirurgia e solo 1 chirurgia complicata con il faco. Ma per la popolazione del Benin sono praticamente insufficienti per non dire inesistenti. Come è stato formare il personale, come gli infermieri? Addestrare il personale di supporto significa guadagnare tantissimo tempo per poter fare più interventi. A due persone che non sapevano né leggere né scrivere in una settimana gli ho insegnato a fare gli infermieri di sala e quindi a darci supporto durante gli interventi, velocizzando così tutto il processo. È fondamentale formare il personale in loco.

Avevate dei turni di lavoro? Avevo organizzato 3 turni poiché loro molto spesso più di 4/5 ore non riuscivano a reggere la fatica. Io lavoravo 12/14 ore e così potevo seguire tutti e tre i turni e non solo. Perché oltre a fare interventi e visite facevo anche manutenzione e ordine del materiale che arrivava ma che non veniva sistemato in modo adeguato. Ad esempio abbiamo trovato cassette di viscoelastici lasciate al sole per giorni e quindi abbiamo dovuto reidratarle, rimetterle in frigo, riconsiderarle per salvarle e poterle utilizzare. Se avessimo fatto le stesse cose in Italia avremmo avuto un’infezione per ogni intervento, li invece in 15 giorni non abbiamo mai avuto un evento avverso. Insomma, per 12 giorni abbiamo lavorato in maniera più che intensa.

Com’eravate organizzati, ci sono ospedali da campo? C’è un ospedale da campo con ambulatori e farmacie da campo che si muoveva su camion e veniva ospitato in varie zone, tipo orfanotrofi o zone della croce rossa, insomma in luoghi di appoggio. Poi venivano installati in zone recintate e ben sorvegliate all’interno dei villaggi. Bisogna considerare che sono zone estremamente pericolose vista la povertà.

Questo tipo di esperienza è quindi itinerante? Si, in modo da raggiungere i centri più disagiati che di solito non vengono raggiunti. La maggior parte delle volte erano persone agiate, ovviamente un’agiatezza diversa da quella che intendiamo noi. Si è spostato nei 15 gg che è stato lì? Alla fine, considerando i ritmi che eravamo riusciti ad organizzare avevamo deciso di rimanere fermi. Andava il camion visita a 50 km di distanza e poi portava i pazienti alla base, dove c’eravamo noi, con le ambulanze motorizzate che erano o biciclette o motociclette. Quindi il camion chirurgico non si spostava, era il camion visita che si spostava, così velocizzavamo il lavoro. Molti pazienti operati non tornavano neanche a casa e rimanevano a dormire sotto ai camion per poter essere visitati il giorno dopo, perché viaggiare con il buio pesto era terribile.

Dove dormivate, cosa mangiavate? Diciamo che era un campeggio all’ennesima potenza, in muratura ma con il problema delle zanzare, bisognava dormire sotto le zanzariere, bisognava avere i vaccini, c’era l’acqua ma bisognava usarla con parsimonia perché avevamo una sola bottiglia per lavare i denti e per l’igiene intima che ci doveva durare 2/3 giorni perché costa tantissimo e non ce ne è tanta. Per non parlare del cibo… Abbiamo mangiato anche la cucina locale a base di foglie di alberi e anche una pantegana gigante… Le visite e le operazioni venivano pagate? In questa esperienza ho capito una cosa molto importante e cioè che il modo più sbagliato per aiutare i poveri è darglielo gratis, devono pagare un minimo, perché se glielo diamo gratis non rendiamo il servizio di cui hanno bisogno. Infatti i medici e gli infermieri locali se non hanno un giusto rientro economico se ne vanno via per cercare di guadagnare da altre parti. Ti fai pagare poco, tanto poi questi soldi vengono reimpiegati. Pagavano in soldi o in pagherò o servizi che avrebbero dato in futuro.

 

C’è qualcosa che avrebbe fatto in modo diverso? Mi sono pentito di aver fatto un intervento molto lungo, durato circa 3 ore, perché alla fine ho perso tre ore per un occhio che il paziente perderà in ogni caso ma in quelle ore avrei potuto aiutare 7/8 persone dandogli una speranza di vita. So che è cinico da dire ma quelle persone non le aiuterà nessuno e questa persona alla fine ha perso l’occhio, quindi alla fine cosa ho fatto? Niente. Bisogna entrare nel loro mondo, bisogna saper valutare le situazioni e capire quale sia la cosa migliore da fare.

Oltre a cataratte e glaucomi, cos’altro ha visto di particolare? Infezioni molto particolari, derivanti da acque stagnanti, da batteri che creano dei danni enormi che potrebbero essere risolti semplicemente con degli antiparassitari, cicatrici, disfunzioni. Si vede tutto quello che noi ormai siamo abituati a vedere solo sui libri. È un’esperienza molto forte. Il 50% di quello che vedevo non era curabile. Molto spesso arrivavano pazienti, pagavano la visita, ma non era curabile, era troppo tardi oppure difficile curarli con i mezzi a disposizione. Bisogna avere la forza di capire che quello che si può fare si fa e quello che non si può fare non si fa, ma bisogna andare avanti. Bisogna essere rapidi, non si può perdere tempo. Se una cosa non è curabile bisogna passare al paziente successivo che magari riesci ad aiutare.

L’impatto con la popolazione come è stato? Noi in realtà eravamo all’interno di una “bolla”, non abbiamo avuto contatti con la popolazione rurale a parte una volta poiché mi avevano chiesto di valutare la possibilità di costruire un ospedale chirurgico oftalmico in una sorta di missione dove c’era già un ambulatorio di medicina generale. In generale però gli oculisti vengono apprezzati e richiesti tantissimo, molto di più dei chirurghi d’urgenza, di quelli traumatici e degli ortopedici… poiché traumi, fratture etc... in maniera più o meno tradizionale riuscivano a sistemarli ma i problemi agli occhi solo l’oculista poteva risolverli. Ma quindi è vero che la stregoneria è molto presente? Si, in Benin è nato il voodoo quindi ci è capitato di visitare pazienti che prima erano stati dagli stregon. Ad esempio dovevamo operare 3 pazienti ma la mattina è arrivato l’ordine dello stregone che diceva che non potevano più essere operati perché il sangue della gallina aveva detto che non era propizio… È una cultura totalmente diversa dalla nostra.

Come ha fatto con la lingua? Loro parlano francese, o dialetti vari, io non parlo francese e avevo delle persone che facevano da traduttrici ma riuscivo in ogni caso a comunicare anche da solo con i gesti o mostrando loro cosa si doveva fare. Insomma anche se non si parla la lingua ci si riesce a far capire.

Ha un aneddoto da raccontarmi che le è rimasto particolarmente impresso? L’ultimo giorno, mentre stavamo salutando le suore, hanno portato una giovane ragazza di 12 anni che era stata picchiata, la ragazza è stata ripulita dalle suore ma poi stava per essere rimessa in strada. Noi abbiamo detto al loro capo, una suora veneta di una certa età, che non era umano fare una cosa del genere. Lei ci ha risposto che nell’orfanotrofio avevano la possibilità di tenere solo 60 bambine di tutte le età e che non avevano le risorse per tenerne altre. Ci ha detto che se avessero avuto altri 200 euro avrebbero potuto tenerla per un anno, un anno e mezzo e farle imparare un mestiere in modo che poi potesse essere autonoma e avere un futuro. 200 euro per dare un futuro e un’istruzione! Io e il mio collega ci siamo guardati e gli abbiamo dato 200 euro per poter garantire un futuro a questa bambina. Molte spesso non ci rendiamo conto e non sappiamo che con pochi euro puoi garantire il futuro a qualcuno, dare istruzione e insegnare un mestiere. (sarta o altro…).

Quando torna in Italia cosa si porta dietro? Sinceramente un senso di “dispiacere” nei confronti dei miei colleghi in Italia che a volte si focalizzano su sciocchezze, che possono avere discussioni per pochi spiccioli, per un turno di guardia, per una persona che è stata operata un giorno prima, rispetto ad un giorno dopo… Ti dispiace perché ti rendi conto che ci si lamenta per sciocchezze quando fuori c’è un mondo che soffre e quindi non bisognerebbe prendersela per queste cose. Andare in missione ti fa vedere le cose in modo diverso, affrontare la vita, anche lavorativa, con un altro spirito. Ad esempio adesso quando vado in viaggio con la mia famiglia mi porto medicine, ferri e per quello che posso cerco sempre di aiutare le persone che ne hanno bisogno e che soffrono. La prossima volta che andrò in missione mi piacerebbe portare con me la mia famiglia. Perché anche loro possono essere utili. Basta davvero poco e c’è bisogno davvero di tutto. Anche le persone che non sono medici possono dare tanto! Anche io nel mio piccolo quando ero lì, la sera, oltre a fare il medico ho aiutato in altre cose, ho smontato e riparato un intero generatore, mi sono occupato di opere idrauliche, elettriche etc. Perché loro hanno questa cultura, quando si rompe qualcosa la buttano via perché non sanno come ripararla. Non hanno i mezzi e la conoscenza. Ad esempio di tre lampade a fessura che c’erano, tutte e tre rotte, ne ho smontate tre e ne ho sistemate due e per la terza ho spiegato come fare a ripararla e ho ordinato i pezzi per sistemarle.

Qual è il bilancio di questa esperienza? Estremamente positivo, bisogna però essere consapevoli che non si possono cambiare le cose, si può però aiutare il più possibile dando il proprio supporto. C’è necessità più che di volontariato di formare gli infermieri. Formare medici è troppo lungo e il rischio è che poi vadano all’estero, come spesso accade, invece formare personale di livello intermedio potrebbe essere un primo step per avere infermieri che possano fare del proprio meglio per aiutare. Un tutor che porta 4/5 medici specializzandi farebbe molto di più di un chirurgo che sicuramente potrebbe fare più interventi ma che non riuscirebbe a dare più di quello. È inutile cercare di andare ad esportare un modello chirurgico come il nostro che lì non è applicabile. Li ci vuole un modello locale, sostenibile localmente e che sia capace di andare avanti indipendentemente dalla presenza o meno di un oculista missionario. In missione ho potuto sviluppare la tecnica SICS che è una tecnica velocissima equiparabile alla faco ma che viene fatta senza strumenti meccanici ed è sviluppatissima in africa e in india. In India la maggior parte del materiale e delle tecniche sono iper sviluppate, i tempi operatori sono ridotti al minimo e così anche i costi perché non ci sono possibilità.